Letteratura Scritta e Letteratura Disegnata
Testi della Tavola Rotonda
LETTERATURA SCRITTA E LETTERATURA DISEGNATA
I FUMETTI NELLE LIBRERIE ITALIANE
organizzata dall’associazione nazionale di autori Anonima Fumetti
per il Salone del Libro di Torino, 18 maggio 1996.
I testi integrali sono disponibili in forma di registrazione magnetica presso l’Anonima Fumetti; i © copyright sui singoli testi sono dei rispettivi autori, che possono essere contattati anche tramite l'Anonima Fumetti.
(To be translated in english. Can you help us?)
Interventi di Gianfranco Goria, Franco Fossati, Giampaolo Caprettini, Dario Corno, Alberto Arato, Ferruccio Giromini.
Introduzione di Gianfranco Goria (autore, presidente dell’Anonima Fumetti):
Il tema di questa tavola rotonda è legato alla presenza del fumetto in un Salone dedicato alla "Letteratura scritta", quale è, appunto, quello di Torino, un Salone notoriamente di estrema importanza e nel quale la presenza del fumetto in un modo o nell’altro si è sempre insinuata. Da un paio di anni c’è uno sforzo in atto per avvicinare di più queste due forme letterarie.
In generale noi autori, o noi che ci occupiamo professionalmente in qualche modo del linguaggio del fumetto, lo consideriamo uno di quelli con potenzialità notevoli di espressione e di comunicazione. Viene definito in modi diversi, a parte le diverse terminologie territoriali (fumetto in Italia, pensando alla "nuvoletta" che contiene i testi, bande dessinée in Francia , pensando alla striscia disegnata, comics negli Stati Uniti, pensando alle sue origini legate all’umorismo), negli ultimi anni, avendo approfondito i lavori di analisi e di ricerca su questo medium, altre terminologie si sono fatte avanti, certo non a sostituzione del termine d’uso popolare, ma affiancandosi a questo per cercare di definire meglio cosa s’intende con "fumetto". E allora ecco che troviamo definizioni come quella del grandissimo autore americano Will Eisner che parla di "arte sequenziale", sottolineano l’aspetto artistico e la sequenzialità, cioè il fatto che la vera magia del fumetto si compie mettendo le varie vignette in sequenza logica (con tutte le differenze che quindi ci sono tra l’arte della vignetta singola, o quella della sequenza cinematografica, che sono altra cosa ancora). Nei paesi di lingua francese è in voga il termine (oltre, naturalmente a quello popolare già citato) di "nona arte". Per chiarire questo concetto ci facciamo aiutare da Thierry Groensteen (direttore del Museo del Fumetto di Angoulême) citando la sua prefazione (che traduco a braccio) al primo numero della prestigiosa rivista Neuvième Art:
"Il sistema delle Belle Arti, in rapporto al quale il fumetto rivendica il nono posto, non è certo assoluto o universalmente accettato. Chi è in grado di citare la terza o la quinta arte ? Di fatto, il fumetto si è scelto questo vessillo in riferimento alla Settima Arte, il cinema, col quale ha in comune il fatto d’essere un’arte della narrazione per immagini. Nel 1920 Ricciotto Canudo fonda il "Club della Settima Arte". Un poco più tardi apparve la "Gazzette des sept arts", che, nel secondo numero datato 25 gennaio 1923, ospitò il Manifesto delle Sette Arti in cui Canudo ... riformula la teoria da lui stesso inventata. Questa postula l’esistenza di due arti fondatrici : l’Architettura e la Musica, scoperte dall’uomo primitivo fabbricando la sua prima capanna e danzando per la prima volta col solo accompagnamento della voce che cadenzava i colpi dei piedi sul terreno. La Pittura e la Scultura nacquero poi come declinazioni dell’Architettura, la Poesia e la Danza come prolungamenti della Musica. E Canudo concluse con questa bella volata: Oggi, il cerchio in movimento dell’estetica si chiude infine trionfalmente con questa fusione totale delle arti citate: il Cinematografo.
Dovremmo credere che la chiusura del cerchio non era ermetica, visto che il fumetto avrebbe ancora dovuto prendervi posto. L’iniziativa fu di Claude Beylie, che fu il primo a proporre il termine Nona Arte nel secondo di una serie di cinque articoli pubblicati da gennaio a settembre nel 1964 in "Lettres et médecins" sotto il titolo "Il fumetto è un’arte ?" L’ottavo posto, secondo lui, spettava alla radio-televisione (che probabilmente non chiedeva tanto...). Poco dopo debuttò su Spirou "Cronache della nona arte" in cui Morris (il creatore di Lucky Luke) e Pierre Vankeer presentavano i classici - soprattutto americani - del fumetto. ... Infine, nel dicembre 1971, apparve presso Christian Bourgois il libro-manifesto di Francis Lacassin "Per una nona arte, il fumetto". E’ significativo che Lacassin, allora titolare di un corso sulla storia e l’estetica del fumetto alla Sorbonne, non avesse creduto necessario giustificare o spiegare l’appellativo di Nona Arte: nell’euforia di un proselitismo fumettistico al quale niente sembrava opporsi, lo considerò senza dubbio come definitivamente accettato.
Intitolando Nona Arte la nostra rivista, non intendiamo militare per la generalizzazione di una terminologia, che non avrà mai altra legittimazione se non quello dell’uso stesso; noi postuliamo semplicemente l’esistenza del fumetto come un fatto artistico incontestabile."
In questo anno sono in corso dibattiti in occasione del centenario del fumetto: è un centenario vero, è falso ? Sono cento, o ben di più? E’ la nona arte, l’ottava, o forse addirittura la prima ? Se dovessimo andare indietro nel tempo, forse dovremmo ipotizzare che un certo modo di miscelare immagini e "altre cose" è tra le forme di comunicazioni più antiche su questo pianeta. Ma questo non è particolarmente importante...
Un’altra definizione ancora di fumetto in questi ultimi anni è "letteratura disegnata". Questa è legata all’amatissimo Hugo Pratt, che amava parlare in questi termini del fumetto, e certo, nel caso della sua opera, l’elemento letterario è assolutamente evidente. ... Un grande narratore, che era in grado di raccontare cose di incredibile fascino usando stili grafici di estrema semplicità, e nel fumetto semplicità non vuol dire cosa da poco, ma, al contrario, un lavoro lunghissimo di raffinazione che porta ad un’estrema sintesi, a una codifica essenziale che renda più facile arrivare alla mente e al cuore dei lettori. ...
Un efficace tentativo di raggiungere una definizione "scientifica" di questo linguaggio è stato fatto dall’autore statunitense Scott McCloud nel suo "Understanding Comics" (ora in italiano col titolo "Capire il Fumetto") : "immagini e altre figure giustapposte in una deliberata sequenza, con lo scopo di comunicare informazioni e/o produrre una reazione estetica nel lettore". Com’è evidente non si tratta di un sostituto dei vari termini popolari regionali, ma di una definizione con la quale dovremo intelligentemente fare i conti a lungo...
Nonostante il peso dell’opera di autori come Pratt e degli altri grandi autori, in Italia non possiamo prenderci il lusso di considerare come acquisito il concetto di fumetto come arte e forma narrativa. Perciò ringraziamo il Salone del Libro di Torino per averci consentito quest’anno di aumentare gli interventi (realmente) culturali rispetto a questo discorso. Per noi è essenziale che le varie forme d’arte e di letteratura si ritrovino riconoscendo i propri punti in comune. Ci sono debiti reciproci, debiti positivi, come con l’arte del cinema e del teatro, e il rapporto che in generale chi fa fumetti ha con le altre arti è assolutamente naturale, un rapporto d’affetto e di crescita comune. Quello che per noi è importante, in questi anni in cui è in atto una grande crisi anche nel settore del fumetto, è riaprire i canali che stavano aprendosi negli anni sessanta/settanta, e offrire di nuovo l’occasione, alle varie forme d’espressione umana, di comunicare fra loro e dare il proprio contributo a superare la solitudine intrinseca dell’essere umano, favorendo la comunicazione e il flusso di sentimenti, sensazioni, emozioni.
Sull’aspetto della presenza del fumetto nelle librerie (nelle edicole si tratta di un altro discorso) avremmo voluto avere qui anche librai e editori (non di fumetti); magari sarà possibile in un’altra occasione. Ma un editore va citato, e non me ne vogliano gli altri: non tutti fanno il proprio lavoro con l’entusiasmo che, da chi tratta di questo specifico linguaggio, ci si aspetterebbe, mentre invece questo è proprio il caso di Bonelli, che ha marcato il fumetto italiano con una passione enorme, sia come editore che come autore, e, sia che si sia lettori o no delle sue edizioni, gli si deve riconoscere il merito di aver dato la possibilità di sopravvivere a una grossa fetta del fumetto italiano; un tipo di fumetto che, è vero, non è quello che di solito si trova nelle librerie, ma è anche vero che in Italia, per ora, il fumetto nelle librerie è ancora un oggetto un po’ misterioso.
Intervento di Franco Fossati (giornalista, storico del fumetto):
CENT’ANNI (E PIU’) DI FUMETTI:
DA UN CONTENITORE ALL’ALTRO
Molte storie del fumetto, forse con lo scopo di nobilitarne le origini, si aprono con un lungo elenco di remoti antecedenti culturali: dalle pitture dalle caverne ai graffiti rupestri, dai geroglifici egiziani ai bassorilievi della Colonna Traiana, dalla "Biblia pauperum" al celeberrimo arazzo di Bayeux che racconta, su una lunghezza di settanta metri, la conquista dall'Inghilterra da parte dei normanni. Nulla di più falso. Anche sa le storie disegnate sono indubbiamente nate stabilendo rapporti più o meno stretti con certe a arti preesistenti (basti pensare ai filatteri delle antiche illustrazioni medievali o alle "Images" di Epinal) non è necessario comunque scomodare simili illustri predecessori. Ciò non vuoi dire, naturalmente, che anche i fumetti non abbiano avuto, soprattutto nel Settecento e nell'Ottocento, i loro antenati, i protofumetti, appunto), soprattutto nelle vignette e nelle tavola politiche e satiriche oltre che in vera e proprie storie costruite con sequenza di vignette. tra questi precursori bisogna ricordare almeno tre inglesi -William Hogarth (1797-1764), pittore, incisore e minuzioso vignettiste: Thomas Rowlandson (1756-1827), creatore di veri e propri protofumetti con didascalie in rima, e James Gillray (1757-1815), che già usava le caratteristiche nuvolette, il tedesco Wilhelm Busch (1832-1908), creatore tra l'altro di Max und Moritz, due terribili monelli, precursori degli altrettanto terribili Bibì e Bibò di Rudolph Dirks, il belga Richard de Querelle, che nel 1943 pubblicò un vero e proprio album a fumetti, "Le dèluge à Bruxelles". un racconto avveniristico che è anche una caricatura della borghesia, l'italo-brasiliano Angelo Agostini e il francese George Colomb (1856- 1945), che nel 1889 diede vita a Le famille Fenouillard. Non si possono infine dimenticare lo scansafatiche e squattrinato Ally Sloper creato nel 1867 dell'inglese Charles Henry Ross (anche se molti critici soprattutto quelli statunitensi, non l'hanno mai considerato un vero fumetto) e soprattutto, lo svizzero Rodolphe Töpffer (1799-1846), autore sin dal 1827 di numerose storie illustrate pubblicate direttamente in volume a partire dal 1833. Tra i suoi primi estimatori l'ottantenne Johann Wolfgang Goethe, che all'amico ginevrino Frédéric Soret scriveva:
"E’ incredibile come sappia ricavare da così pochi personaggi molteplici occasioni", e aggiungeva di leggere le sue storie poco per volta, "per non rischiare di fare un'indigestione di idee". (cfr. Scott McCloud pag.25, sulle difficoltà di apprendimento del linguaggio del fumetto da parti degli adulti)
Se trascuriamo i remoti antecedenti culturali ricordati all'inizio, vediamo che i fumetti nascono sui settimanali umoristici, sui fogli volanti dalle "Images" di Epinal e direttamente in volume. Ma, tranne rare eccezioni, la limitata diffusione di questi contenitori non ci permette ancora di parlare di un fenomeno di massa. Ecco perché si accetta di festeggiare il compleanno "ufficiale" del fumetto con lo Yellow Kid di Richard Felton Outcault, apparso circa cento anni fa sul supplemento domenicale del quotidiano "New York World". Infatti, non bisogna dimenticare che il carattere specifico dei fumetti risiede soprattutto nella loro natura di mezzo di espressione di massa, che nasce e si diffonde alle fine dal secolo scorso negli Stati Uniti grazia alla concorrenza tra gli editori Joseph Pulitzer e William Randolph Hearst, che punteranno proprio sui fumetti per lanciare le edizioni domenicali dei loro quotidiani.
Nei 1880, nonostante una vivace campagna e favore dell'osservanza del giorno festivo, alcuni quotidiani americani avevano incominciato a uscire anche la domenica. Una dozzina d'anni dopo, Joseph Pulitzer, proprietario del "New York World" e di altri quotidiani, è il primo a capire che un supplemento a colori può suscitare l'interesse dei lettori e quindi portare a un certo incremento delle vendite. Ci voleva però un'idea per lanciarlo. E così, dopo aver puntato sull'arte e sui grandi monumenti, provò a pubblicare a tutta tavola le illustrazioni di Richard Felton Outcault, che in seguito avrebbe dato vita a Yellow Kid. In realtà già nel 1892 James Swinnerton aveva iniziato a pubblicare sul "San Francisco Examiner" di William Randolph Hearst le storielline dei Little bears, simpatici orsacchiotti bianchi a neri impegnati ogni settimana a fare e a dire (ancora senza nuvolette, ma con brevi didascalie) cosa divertenti su un tema comune. Non sono ancora protagonisti di un vero e proprio fumetto, ma questa seria è ugualmente importante perché ripropone ogni settimana personaggi appositamente creati per un quotidiano. Questi simpatici orsacchiotti sono in seguito stati dimenticati e riscoperti soltanto dopo molti anni. Questo spiega, almeno in parte, perché Yellow Kid è normalmente considerato il capostipite ufficiale del fumetto moderno. Dall'ottobre 1896 Outcault passerà alla concorrenza, pubblicando Yellow Kid sul supplemento domenicale del "New York Journal" di Hearst, "The American Humourist' (definito dalla pubblicità "otto pagine di splendore policromo al cui confronto l'arcobaleno è un pezzo di piombo"). Anche grazie ai fumetti, il "New York Journal" raggiungerà una tiratura superiore al milione e mezzo di copie già all'inizio dei secolo.
Per alcuni anni i personaggi "made in Usa" sono pubblicati quasi esclusivamente sulle pagine colorate dei supplementi domenicali dei giornali un conienitore che si rivolgeva ai ragazzini ma strizzava l'occhio anche agli adulti. In seguito incominciarono a diffondersi anche le strisce quotidiane in bianco e nero, pubblicate in un primo tempo soltanto dai giornali del gruppo Hearst e dai piccoli giornali che non potevano permettersi un supplemento a colori. Può essere curioso ricordare che la diffusione delle strisce quotidiane incontrò l'opposizione di molti direttori, disposti, a "sopportare" i fumetti finché questi restavano confinati in un loro apposito contenitore -i supplementi domenicali, appunto- ma che li ritenevano davvero inaccettabili se venivano introdotti tutti i giorni direttamente sulle pagine del giornale. Mutt and Jeff, serie creata da Bud Fisher nel 1907 e pubblicata sui quotidiani del gruppo Hearst, è la prima striscia di successo pubblicata ogni giorno (sei giorni alla settimana) su una pagina fissa, quella con le informazioni sulle corse dei cavalli. Oltre a William Randolph Hearst, anche Joseph Patterson, proprietario del "New York Daily News", un giornale che non aveva l'edizione domenicale, è uno dei più entusiasti sostenitori delle strisce quotidiane. Patterson sarà anche il primo, quando nel 1924 il suo giornali si arricchirà dell'edizione domenicale con relativo supplemento, ad avere l'idea di sincronizzare le storie delle strisce quotidiane con quelle delle tavole domenicali. Facciamo ora un passo indietro per ricordare che, mentre alla fine degli anni Dieci l'elaborazione del linguaggio e delle convenzioni del fumetto sono ormai in una fase avanzata negli Stati Uniti e il numero dei personaggi è quasi triplicato nel giro di una decina d'anni (secondo un'indagine del critico Francis E. Barcus si è passati da 65 nel periodo 1900-1904 a 165 nel 1905-1909), in Europa le nuvolette sono ancora a lungo ignorate e si continua a separare nettamente le immagini dai testi, collocando lunghe didascalie sotto le vignette. Contrariamente a quanto è accaduto negli Stati Uniti, dove i fumetti si sono moltiplicati e diffusi proprio grazie ai quotidiani, tranne rarissime eccezioni, nel vecchio continente questi contenitori snobbano le strisce e le tavole a fumetti e preferiscono inserirle tra le pagine di riviste per ragazzini ricche anche di racconti moraleggianti, narrativa d'autore e così via.
Valga, per tutti, il caso del "Corriere dei piccoli". Nato il 27 dicembre del 1908 come supplemento del quotidiano "Corriere della sera", si rivolge esclusivamente ai bambini, adattando e manipolando in vario modo il materiale americano. Il sadico Buster Brown, creato da Richard Felton...
sbobinamento in corso - work in progress
Intervento di Giampaolo Caprettini (docente di semiotica all’Università di Torino) :
sbobinamento in corso - work in progress
Intervento di Dario Corno (docente di tecnica della comunicazione) :
sbobinamento in corso - work in progress
Intervento di Alberto Arato (insegnante e sceneggiatore):
Frammento ed emozione:
una grammatica della lettura
Introduzione
Quando riflettiamo sulle difficoltà alla lettura dobbiamo probabilmente
riflettere non tanto sul problema tecnico che oggi l'attività (abilità) del
leggere comporta, quanto piuttosto a una nuova mappa mentale che organizza
in modo profondamente diverso lo spazio dell'immaginario.
Se noi provassimo a pensare il nostro immaginario, inteso come il serbatoio
di tutte le nostre credenze sulla realtà, come a un atlante dovremmo dire
che prima della post modernità le mappe disegnavano tutte un mondo
integrato e coerente, con leggi precise, mentre oggi disegnano piccoli
universi autoconclusi, disponibili ad avere connessioni con gli altri, ma
fondamentalmente autosufficienti. Il visitatore che si addentrasse dentro
questo universo di informazioni, emozioni, credenze più o meno condivise si
troverebbe così ammalato di una singolare malattia che potremmo chiamare
"sindrome di Marco Polo".
Quali sono i sintomi di una tale malattia? Per aiutarci dovremmo fare
ricorso a qualche trattato di medicina dell'immaginario: quello che ci
presenta a tutt'oggi un'anamnesi lucida e completa della malattia è "Le
città invisibili" di Calvino.
L'opera si distingue per una divisione assai significativa che sembra
risalire a una modalità classica di impostazione letteraria: una serie di
testi di natura diversa contenuti entro una cornice 'narrativa'.
La novità rivoluzionaria dell'intero testo tuttavia sta nella funzione che
questi due elementi assumono: la cornice diventa qui un "luogo" teoretico
dove l'autore costruisce una storia meditativa dell'evoluzione linguistica
letteraria e culturale dei nostri tempi, mentre nei testi raccolti, un
insieme di descrizioni di città immaginarie, propone un modo completamente
nuovo di narrare che, per gli anni in cui l'opera è stata pubblicata,
appare proiettato verso futuro che solo ora comincia a realizzarsi.
La cornice
Nella cornice sono descritti i sintomi della sindrome di Marco Polo.
Narrativamente parliamo di un dialogo mai interrotto tra Kublai Kan e Marco
Polo nella reggia del Kan, locus conclusus sospeso fantasticamente tra il
giardino incantato; il palazzo delle meraviglie e il luogo "Altro"
dell'esotico, espresso qui con indizi che suggeriscono l'idea di Oriente,
ovviamente un Oriente immaginario e coerente con la tradizione occidentale
che pensa all'Oriente. Tuttavia questo dialogo presenta alcuni passaggi
interessanti che offrono uno spunto di riflessione sul senso che ha
comunicare "attraverso storie", cioè attraverso la narrazione.
Capitolo I
Kublai l'imperatore scopre che il suo impero che era sembrato la somma di
tutte le meraviglie è uno sfacelo senza né fine né forma. Tuttavia
Solo nei resoconti di Marco Polo Kublai Kan riusciva a discernere,
attraverso le muraglie e le torri destinate a crollare,la filigrana d'un
disegno così sottile da sfuggire al morso delle termiti.
Se assumiamo per un momento l'identità tra Kublai e l'Ascoltatore (con la A
maiuscola) vediamo che la difficoltà del Narratore-Marco Polo è quella di
far cogliere all'imperatore dell'immaginario la filigrana di un disegno
attraverso gli oggetti che gli vengono 'raccontati'. Questa è
indubbiamente una difficoltà del mondo post-moderno (forse simile a quella
del mondo pre-moderno, se mai n'è esistito uno) che disorienta il lettore.
In altre parole la sindrome di Marco Polo comincia scontrandosi con la
difficoltà del suo ascoltatore a cogliere un disegno unitario entro una
narrazione. Perché questo? Perché la filigrana si è fatta sempre più
sottile, sempre più evanescente. In altre parole Marco Polo, cioè il
Narratore, è stato ricacciato nel suo "Medio Evo", nelle descrizioni
compiute delle sue città, nei suoi innumerevoli universi autoconclusi.
Capitolo II
L'imperatore confronta marco Polo con gli altri ambasciatori. Costoro si
esprimono in lingue sconosciute, afferma Calvino, e un opaco spessore
sonoro maschera cifre, nomi e patronimici di funzionari, dimensioni di
canali d'irrigazione. Marco Polo invece...non poteva esprimersi altrimenti che con gesti, salti, grida di meraviglia e d'orrore, latrati o chiurli di animali, o con oggetti che andava estraendo dalle sue bisacce: piume di struzzo cerbottane, quarzi, e disponendo davanti a sé come pezzi degli scacchi. Di ritorno dalle missioni cui Kublai lo destinava, l'ingegnoso straniero improvvisava pantomime che il sovrano doveva interpretare: una città era designata dal salto d'un pesce che sfuggiva al becco del cormorano per cadere in una rete, un'altra città da un uomo nudo che attraversava il fuoco senza bruciarsi, una terza da un teschio che stringeva tra i denti verdi di muffa una perla candida e rotonda.Il Gran Kan decifrava i segni, però il nesso tra questi e i luoghi visitati rimaneva incerto: non sapeva mai se Marco volesse rappresentare un'avventura occorsagli in viaggio, una impresa del fondatore della città, la profezia d'un astrologo, un rebus o una sciarada per indicare un nome.
Ma, palese o oscuro che fosse, tutto quel che Marco mostrava aveva il
potere degli emblemi, che una volta visti non si possono dimenticare né
confondere. Nella mente del Kan l'impero si rifletteva in un deserto di
dati labili e intercambiabili come grani di sabbia da cui emergevano per
ogni città e provincia le figure evocate dai logogrifi del veneziano.
In una sorta di sovrabbondanza comunicativa Marco Polo manifesta il secondo
sintomo della sua sindrome. Il ricorso cioè alla multicodificazione un po'
per ignoranza della lingua di Kublai, un po' per evitare il pericolo della
parola (cfr Scott Mc Cloud) che accumula semplicemente dati su dati.
Potremmo allora ravvedere dentro le pantomime di Marco la volontà
(necessità?) di coinvolgere con il racconto la sfera delle emozioni? Forse.
Queste emozioni si giocano non tanto nel contenuto che Marco propone a
Kublai quanto piuttosto nel procedimento comunicativo che si instaura tra
Kublai e Marco, un processo di decifrazione 'attiva' che propende sempre
più verso la partecipazione di Kublai. Il Gran Kan decifra cioè i segni, ma
gioca l'emozione sottile dell'interpretazione sull'incertezza e
sull'ambiguità che denota il legame tra un emblema e l'altro. Mi viene da
pensare ai prodigiosi salti tra nuclei narrativi 'paralleli' di certe
storie di Moebius o ai legami interni quasi inesistenti tra le sequenze
scritte da Gaiman per la serie di Sandman. La sindrome di Marco Polo
stimola a costruire 'storie vicino alle storie' potenziando in apparenza
l'idea di "Centro di gravità narrativo" illustrata da Corno su Teuth nel
1994. In breve un centro di gravità narrativo dovrebbe essere il risultato
di "un'ipotetica somma di letture parziali, man mano che procediamo a
'informarci' sulla storia, ma anche (e soprattutto) quello che ci capita in
alcune zone di sosta della lettura o della visione quando tiriamo le fila
del discroso e ci prepariamo a quello che segue. Scrivere per
giustapposizione di frammenti sembra dunque essere l'effetto della sindrome
di Marco Polo: l'effetto è quello della disgregazione della struttura
testuale pre-moderna: un insieme cioè di sequenze altamente gerarchizzate
con rilevanti (e quindi vincolanti) legami tra di loro. Nel nostro caso
invece il lettore (Kublai) sembra voler entrare nel processo di
composizione della storia avocando a sé il diritto di interpretarla come
più gli piace. Comincia a venirci il sospetto che scrivere con i fumetti
sia allora una forma che pienamente si accorda con la nuova mappa mentale
dell'immaginario che stiamo tentando di descrivere.
Capitolo III
Nuovo arrivato e ignaro delle lingue del Levante, marco Polo non poteva
esprimersi altrimenti che estraendo oggetti dalle sue valigie:
tamburi,pesci salati, collane di denti di facocero, e indicandoli con
gesti, salti, grida di meraviglia o d'orrore, o imitando il latrato dello
sciacallo e il chiurlio del barbagianni. Non sempre le connessioni tra un
elemento e l'altro del racconto risultavano evidenti all'imperatore; gli
oggetti potevano voler dire cose diverse: un turcasso pieno di frecce
indicava ora l'approssimarsi d'una guerra, ora abbondanza di cacciagione,
oppure la bottega d'un armaiolo; una clessidra poteva significare il tempo
che passa o che è passato, oppure la sabbia o un'officina in cui si
fabbricano clessidre. Ma ciò che rendeva prezioso a Kublai ogni fatto o
notizia riferito dal suo inarticolato informatore era lo spazio che restava
loro intorno, un vuoto non riempito di parole. Le descrizioni di città
visitate da Marco Polo avevano questa dote: che ci si poteva girare in
mezzo col pensiero, perdercisi, fermarsi a prendere il fresco, o scappare
via di corsa.
Le emozioni chiedono di prepotenza di entrare nella narrazione. Calvino ha
colto un elemento di grande verità quando afferma che "ciò che rendeva
prezioso a Kublai ogni fatto o notizia riferito dal suo inarticolato
informatore era lo spazio che restava loro intorno, un vuoto non riempito
di parole". L'emozione ha bisogno di un elemento vitale, una sorta di umore
amniotico entro la quale transitare: il silenzio.Ecco un altro sintomo
della sindrome di Marco Polo: la narrazione silenziosa, presente come non
mai in certe esemplari sequenze de Il respiro e il sogno (1984) di Berardi
e Milazzo ma anche il silenzio della narrazione inteso come elusione, salto funambolico che trasporta da una vignetta all'altra attraverso gli anni e gli spazi.
Quando invece Marco parla la lingua del Kan, Calvino afferma che la
comunicazione fra loro è meno felice di un tempo. Le parole servono meglio
degli oggetti e dei gesti per elencare le cose più importanti d'ogni
provincia e città; tuttavia quando Polo comincia a dire di come doveva
essere la vita in quei luoghi, giorno per giorno, sera dopo sera, le parole
gli vengono meno e a poco a poco torna a ricorrere a gesti, a smorfie, a
occhiate.
Anche il silenzio o il linguaggio 'emozionale' dei gesti e delle pantomime
(e delle immagini) si possono tuttavia apprendere. Paradossalmente quando
il vocabolario di questa comunicazione diviene patrimonio comune, il
piacere della comunicazione si rompe. Ho la sensazione che questo sia il
punto critico che deve affrontare chiunque si trovi a lavorare sulle
narrazioni. Non è possibile rimanere statici sull'acquisizione di un
sistema di segni codificato, specialmente nell'ottica di un linguaggio che
ha come scopo specifico la trasmissione di emozioni. Questo è un severo
monito che chiede una ricerca sempre nuova sulla comunicazione per una
nuova consapevolezza di linguaggio, quasi come se tra Kublai, il nostro
pubblico, e Marco Polo, noi sceneggiatori, ci fosse la necessità di una
scommessa mai vinta sul modo di comunicare e che va decisamente contro la
serialità.
Capitolo IV
Alla fine la comunicazione tra Kublai e Marco si astrattizza sempre di più
sino a diventare una sorta di modello di modelli, simbolizzato nel racconto
come una scacchiera.
La conoscenza dell'impero era nascosta nel disegno tracciato dai salti
spigolosi del cavallo, dai varchi diagonali che s'aprono alle incursioni
dell'alfiere, dal passo strascicato e guardingo del re e dell'umile pedone,
dalle alternative inesorabili di ogni partita.
Ma adesso è il perché del gioco a sfuggirgli: a forza di scorporare le sue
conquiste per ridurle all'essenza (leggi a furia di astrarre il linguaggio
per ricondurlo al modello) Kublai era arrivato all'operazione estrema: la
conquista definitiva, di cui i multiformi tesori dell'impero ( le parole)
non erano che involucri illusori, si riduceva a un tassello di legno
piallato: il nulla...
L'ultimo sintomo della sindrome di Marco Polo è il timore del nulla,
metaforizzato da Calvino nell'astrazione di un modello iperrazionalistico e
del tutto privo di 'pathos' comunicativo. Detto dall'autore del "Castello
dei destini incrociati" e "Se d'inverno un viaggiatore" questo timore appare decisamente inquietante. Viene infatti qui disegnato lo scenario di un narrare circolare che torna costantemente su se stesso, sui propri
apparati strutturali, un narrare di cui non si coglie più alcuno scopo
comunicativo. Di fronte a questo nulla Calvino ritorna al pre-industriale,
al pre-moderno, ritorna a Marco Polo che disegna l'affresco di un mondo
"Altro" quello orientale, usando la descrizione, l'immagine cioè e la
frammentazione. Un Marco Polo che si spinge fino alle frontiere estreme del
mondo, verso il nulla e che lo annulla con il suo sguardo carico di
emozioni Chiunque abbia letto il Milione (quello vero) sa che il segreto di
questo libro sta nella libertà del viaggio: i viaggi di Marco (quello vero)
sono una narrazione, ma la narrazione sta nelle relazioni che il lettore
riesce, vuole, sa, stabilire tra un capitolo e un altro. In alcune parti si
intravvede la struttura di un vero e autentico ipertesto. Che differenza
c'è nel leggere il capitolo intitolato "Come il Gran Cane fa riporre le
biade per soccorrere sua gente" prima di quello intitolato "Della città che
ha nome Ligni"? Il lettore sceglie i suoi percorsi e l'idea dell'Asia si
forma in lui attraverso una miriade di frammenti che si collegano
suggestivamente l'uno all'altro in modo del tutto proditorio e, proprio per
questo, intrigante.
"Le città invisibili" usano il Milione per sanzionare la crisi del narrare
unitario con singolare preveggenza (siamo nel 1972!) e per proporne uno
assai consono a quel clima culturale che viene chiamato post-moderno.
Astoricità e parallelismo si combinano e coagulano isole narrative
(significativamente descrittive) in un amalgama fatto di silenzio. In
questo composto si intravvedono solo delle filigrane che suggeriscono
arbitrariamente (e quindi liberamente) ponti evanescenti in grado di
evocare strutture narrative nascoste, in formazione e tratte dal calderone
di un immaginario soggettivo che mi pare sempre più disaggregato e fondato
su cortocircuiti emotivi dalle terminazioni lontane e misteriose.
Questo mi pare la strada indicata da Calvino a chiunque voglia raccontare
con efficacia: fare riferimento a un immaginario con queste esigenze e con
queste tensioni. Tutto ciò che sta fuori rischia di essere inutile come
dice Polo a Kublai nel dialogo che chiude il libro:
Kublai: Tutto è inutile, se l'ultimo approdo non può essere che la città
infernale, ed è là in fondo che, in una spirale sempre più stretta, ci
risucchia la corrente.
Polo: L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è
quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo
stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile
a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non
vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione ed apprendimento
continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno,
non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.
Intervento di Ferruccio Giromini (giornalista, critico specializzato) :
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