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Walter
Veltroni Vice Presidente del
Consiglio dei Ministri e Ministro per i Beni Culturali e
Ambientali
Conclusioni
Per un osservatore frettoloso e superficiale, quello
dei musei d’impresa può sembrare un tema secondario. E invece noi tutti
dobbiamo ringraziare Assolombarda e gli organizzatori del convegno che si
è svolto oggi a Milano per avere concentrato l’attenzione su questo
particolare e importante segmento di azione culturale e di offerta
museale. Un segmento che non racchiude interesse soltanto per il mondo
dell’industria, ma per l’intera collettività. La storia delle imprese,
infatti, mette insieme storia della scienza, della tecnologia, del lavoro,
del territorio, dei gusti, dei beni materiali. Non penso solo ai prodotti
industriali — anche se è intorno a essi che è più facile immaginare
operazioni che coinvolgano il grande pubblico, com’è avvenuto ad esempio
al Museo Guggenheim di New York, che ha registrato più di un milione di
visitatori nella recente mostra dedicata alle motociclette. Penso a tutto
ciò che sta a monte e a valle dell’"oggetto" materiale che acquista il
rango di "oggetto di collezione": i metodi produttivi, il sapere
artigiano, l’organizzazione del lavoro, le storie personali e familiari,
le invenzioni, i luoghi della scienza e quelli della produzione materiale,
come le fabbriche e le botteghe artigiane, le modalità dell’uso e i
costumi sociali. Un museo d’impresa, insomma, non è solo una collezione
di "oggetti": è un modo di conservare pezzi importanti della memoria
storica delle nostre società. E non a caso, i veri grandi giacimenti di
conoscenza, da cui hanno origine anche i progetti di musealizzazione, sono
gli archivi storici delle imprese. E fra musei e archivi d’impresa
esistono connessioni e interdipendenze che vanno sempre più riconosciute e
analizzate. Quando guardiamo alla situazione esistente in Italia in
questo particolare e importante comparto della conservazione dei segni del
passato, ci troviamo di fronte, come spesso accade nel nostro paese, un
panorama contraddittorio. Da un lato, come ricorda uno dei nostri più
illustri storici dell’arte, Andrea Emiliani, la cultura istituzionale
della tutela (e la stessa cultura della storia dell’arte) si è evoluta in
Italia in modo esclusivo ed ossessivo sull’"oggetto" artistico. Il primato
assegnato alla pittura, la preferenza per una metodologia critica di tipo
estetico, non hanno permesso in Italia alla cultura dell’"oggetto" di
poter compiere un percorso sistematico di storicizzazione. Rileviamo
segnali di questa situazione sia nelle nostre strutture giuridiche —
incentrate sulle "cose" di interesse artistico più che sulla storia, sui
"beni" più che sul "patrimonio" — sia nell’evoluzione e nell’operare
concreto delle istituzioni statali preposte alla tutela e alla
conservazione. Certo, non dobbiamo essere impietosi e superficiali nel
giudicare questa situazione. L’Italia è un paese talmente ricco di beni
artistici, monumentali e archeologici, che il compito della conservazione
di questo patrimonio è un compito immane — e l’obiettivo della
conservazione nella sua accezione "tradizionale" ha naturalmente assorbito
tutte le energie e le risorse disponibili, sempre in difetto — anzi —
sulle effettive necessità. Tuttavia, è chiaro ormai che le politiche
pubbliche a supporto dei beni culturali hanno sottovalutato nel nostro
paese quelli che potremmo generalmente chiamare gli aspetti di "cultura
materiale", così come l’importante settore della creazione artistica
contemporanea. E non a caso, è proprio in questi settori che, negli ultimi
due anni, sono stati varati importanti progetti innovativi. Penso,
soprattutto, ai nuovi musei nazionali che il Ministero per i beni
culturali ha intenzione di realizzare, e per i quali è stato appositamente
predisposto un disegno di legge all’esame del Parlamento: il centro per le
arti contemporanee, il museo dell’architettura, il museo dell’audiovisivo,
il museo della fotografia. E penso ai numerosi altri progetti che, in
partenariato con i soggetti locali e regionali, sono oggi in fase di
realizzazione per rinnovare l’offerta museale in Italia non solo nei
settori tradizionali dell’archeologia e della storia dell’arte, ma anche
in nuovi settori. Ricordo soltanto il progetto di Venaria Reale, che
prevede un allestimento permanente di grande pregio per le arti decorative
e applicate e l’istituzione di un Museo della civiltà europea; e ricordo
il restauro di Palazzo Guinigi a Lucca, dove verrà ospitato, per
iniziativa degli enti locali e delle associazioni di settore, un Museo del
fumetto. Allo stesso tempo, però, possiamo cogliere nel settore dei
musei d’impresa più di un segnale di notevole dinamismo da parte del
settore privato, e nuovi esempi di collaborazione e partnership
fra privato e pubblico. E di questo panorama positivo, di questa evidente
crescita, è testimonianza il ricco dibattito che si è svolto oggi a
Milano, in continuazione non soltanto ideale della giornata del 2 marzo
scorso dedicata al Premio Guggenheim per "Impresa &
Cultura". Innanzitutto, dobbiamo registrare un dato. È vero che in
Italia non esiste ancora un Museo nazionale del design, oppure della moda,
oppure delle arti decorative. Esistono però una miriade di collezioni e di
esperienze espositive disseminate sul territorio, la cui ricchezza e la
cui multiformità ben difficilmente potrebbero essere racchiuse e
ricondotte all’interno della "gabbia" centrale di un "Museo nazionale".
Una recente indagine, condotta da Monica Amari, censisce ben 128 fra
collezioni e musei che espongono oggetti di produzione delle aziende da
cui traggono origine. Esaminando questi dati, ci sono due
caratteristiche che mi hanno colpito. La prima è l’estrema
differenziazione settoriale dei musei d’impresa, che racconta di per sé le
robuste radici della tradizione industriale in Italia: si va dalle
automobili agli aerei, dalle armi alle calzature, dalla ceramica
all’energia elettrica, dalla moda agli occhiali, dai tessuti al vetro, dai
profumi al marmo, dagli ombrelli ai pneumatici, dalla pasta
all’oreficeria, dalle figurine agli strumenti musicali, dai motocicli alle
macchine da scrivere. Di fronte a questa ricchezza, mi sembra più che
opportuna l’iniziativa lanciata da Carlo Camerana, di costruire più forti
elementi di sinergia e di informazione/documentazione fra i musei
d’impresa, di valorizzare e promuovere queste istituzioni, di dare vita a
un centro di orientamento per il pubblico. I musei, infatti, vivono di
rapporto con il pubblico. E questo vale soprattutto per i musei d’impresa
— certamente, per considerazioni di bilancio e di copertura dei costi — ma
anche perché è attraverso la massimizzazione del pubblico che il museo
d’impresa raggiunge il suo più importante obiettivo: che non è solo di
conservare, ma anche di trasmettere. Di trasmettere, in particolare, la
cultura del "saper fare", il valore del lavoro e della creatività, il
rigore dell’organizzazione e la conoscenza critica del passato. Un paese
industriale avanzato — e l’Italia lo è e lo resterà — deve sempre più
basarsi sulla cultura e sulla formazione. E i musei d’impresa sono luoghi
in cui tutti i ragazzi italiani, in ogni parte d’Italia, possono avere
un’importante occasione di incontro e di conoscenza con il mondo del
lavoro — il mondo del passato, certo, ma anche quello di oggi. La
seconda caratteristica dei musei d’impresa è la loro diffusione
territoriale. Mentre i tradizionali musei d’arte si concentrano nelle aree
urbane, i luoghi dei musei d’impresa raccontano da soli quel tipico
carattere, tutto italiano, di compenetrazione fra campagna e
industrializzazione, di diffusione territoriale delle attività produttive,
di storie aziendali ricchissime nate e vissute lontano dalle grandi città
e dai centri di potere amministrativo e finanziario, di radicamento locale
dell’industria. Un carattere, come sappiamo bene, che ci è invidiato da
tutto il mondo e che è riconosciuto universalmente come uno degli
ingredienti del "successo" industriale italiano. Ecco quindi la grande
opportunità dei musei d’impresa, il motivo per cui non vanno ingabbiati in
istituzioni nazionali: essi rappresentano pezzi importanti delle centinaia
di storie locali di cui l’Italia è ricca, essi possono diventare — e in
qualche caso già lo sono — motori di un’offerta culturale più generale
fortemente ancorata e diffusa sul territorio. Come succede in questi
giorni a Pontedera: i ragazzi vanno a visitare la Piaggio, attratti dalla
storia di questa grande industria di motociclette, e hanno l’opportunità
di vedere — magari di sfuggita — anche opere di arte contemporanea. Così,
alcuni semi sono stati gettati. Verso pubblici e strati di popolazione che
difficilmente andrebbero a vedere, a priori, un’esposizione
d’arte. L’ancoraggio al territorio implica anche, per i musei
d’impresa, un’importante valenza urbanistica e architettonica: quella
legata al riuso degli edifici di archeologia industriale. Qui vedo
numerose strade di incontro fra privato e pubblico, a livello sia locale
che nazionale. Perché la conservazione degli edifici di pregio
dell’archeologia industriale è un obiettivo non soltanto in sé, ma anche
in relazione alle politiche di sviluppo urbano e di rivitalizzazione delle
aree industriali in declino. E qui vedo, anche, nuove strade di
sperimentazione per operazioni culturali ed espositive innovative. Un solo
esempio: lo splendido effetto e i buoni risultati anche in termini di
pubblico dell’esposizione delle statue romane dei Musei Capitolini nei
locali dell’antica Centrale elettrica di Roma, la Montemartini. Il
segnale più importante che colgo nella giornata odierna, e che faccio mio,
è quello della necessità di ridefinire continuamente il concetto di "bene
culturale", e della connessa necessità di una strumentazione di intervento
pubblico che sia allo stesso tempo più forte e più flessibile. In questa
direzione — rendere più forti le politiche per i beni culturali in Italia,
ma renderle anche più agili, più flessibili, più innovative negli
obiettivi e negli strumenti — abbiamo lavorato per più di due anni. E
credo che possiamo onestamente dire che il settore pubblico stia facendo
la sua parte. I fondi destinati alle spese d’investimento per i beni
culturali sono quasi triplicati nel bilancio dello Stato e stanno
assumendo dimensioni sempre più significative in tutti i bilanci locali e
regionali. L’accessibilità del pubblico ai beni culturali è stata messa al
centro delle politiche governative. L’esperimento degli orari prolungati
nei musei ha contribuito all’aumento delle visite (+14% nei primi sette
mesi del ‘98 rispetto ai corrispondenti mesi del ‘97) e ha favorito il
vero e proprio boom del turismo nelle città d’arte italiane, anche — e
questa è una novità davvero positiva — in quelle del Mezzogiorno. Ed è
stata — particolare di non poco conto — un’operazione finanziariamente
conveniente per lo stesso Stato, nel senso che i costi aggiuntivi del
prolungamento degli orari sono risultati inferiori ai rientri tariffari
addizionali. È su questa base, tra l’altro, che credo si possa proporre di
rendere permanente l’apertura prolungata, almeno durante i mesi di
maggiore domanda turistica. Abbiamo, poi, varato una riforma generale
dell’intervento pubblico nel settore, dapprima con le norme di riordino
dei poteri statali, regionali e locali, e un mese fa con il varo della
proposta di decreto legislativo di istituzione del nuovo Ministero per i
beni e le attività culturali. Un Ministero, appunto, più forte nelle
missioni di tutela e di promozione della cultura italiana, ma più agile
negli strumenti e nelle modalità d’intervento. In particolare, il decreto
propone che il nuovo Ministero possa stipulare accordi con amministrazioni
pubbliche e con soggetti privati e possa, altresì, costituire o
partecipare ad associazioni, fondazioni o società. Sono già vigenti
altre norme innovative su cui abbiamo lavorato in questi due anni, che
hanno aperto un nuovo capitolo e una nuova riflessione — non più
accademica ormai, ma pienamente operativa — sui rapporti fra pubblico e
privato nelle imprese che hanno finalità culturali. Penso alle Onlus. Alle
Fondazioni liriche. Alla trasformazione in "S.p.A." di cultura della
Biennale di Venezia. In ciascuno di questi casi è stato predisposto uno
specifico pacchetto di agevolazioni fiscali del tutto nuove. Oggi
possiamo aprire una nuova fase di riflessione, che si basi innanzitutto su
un monitoraggio e su una prima valutazione di queste innovazioni. E che
introduca nuovi elementi di prospettiva strategica. Penso al ruolo delle
Fondazioni bancarie nel sostegno del settore culturale, non solo sotto il
profilo patrimoniale, ma anche per quanto riguarda la gestione delle
attività correnti. Penso al regime fiscale delle sponsorizzazioni e delle
erogazioni liberali destinate alle istituzioni culturali. Qualcosa è stato
fatto in questo campo — ricordo soltanto la riforma dell’imposta sullo
spettacolo, le semplificazioni amministrative e finanziarie per
l’"adozione dei monumenti" e la sperimentazione di un regime agevolativo
"speciale", basato sul credito d’imposta, per le sponsorizzazioni
destinate a Pompei. Qualcosa in più può essere fatto nel futuro, anche
immediato, grazie alla nuova situazione di risanamento delle finanze
pubbliche. I rapporti fra fisco e cultura sono sempre stati, per motivi
oggettivi e strutturali, conflittuali — e questo è vero in tutti i paesi
del mondo. Oggi però, grazie al risanamento, in Italia possiamo lavorare
in un clima più sereno e valutare sul piano operativo, e non più soltanto
astratto, l’esperienza di altri paesi, e in particolare quella del Regno
Unito. Pochi mesi fa, in questo Auditorium dell’Assolombarda, è stato
presentato un "Manifesto per l’impresa culturale" promosso
dall’Associazione bancaria italiana, dall’Associazione nazionale delle
imprese assicurative, dalla Confindustria e dalla stessa Assolombarda. Il
Manifesto proponeva l’istituzione di un "Comitato per l’impresa
culturale", con il compito di delineare e valutare sul piano concreto la
possibilità di sviluppo di nuove forme di imprenditorialità non
profit nel settore culturale. Oggi posso annunciare che la proposta è
stata accolta dal Governo, che ha nominato all’interno del Comitato
autorevoli rappresentanti della Presidenza del Consiglio dei Ministri, del
Ministero di Grazia e Giustizia, del Ministero del Tesoro, del Ministero
delle Finanze, del Ministero dell’Università e della ricerca scientifica e
tecnologica e del Ministero dei beni culturali e ambientali. Si è formato
così un gruppo di lavoro in cui il Governo, insieme ai rappresentanti del
settore privato, potrà valutare ed elaborare sul piano tecnico nuove
proposte per lo sviluppo di forme d’impresa nel settore culturale in
Italia. Io credo molto nei lavori di questo Comitato. Credo che debba
essere una sede aperta di discussione e di elaborazione, ancorata a
scadenze precise, volta a formulare proposte realistiche, immediatamente
traducibili in atti normativi o in sperimentazioni organizzative e
amministrative. E per sottolineare la serietà di questo impegno, anche sul
piano politico, ho deciso di assumere direttamente e personalmente la
presidenza del Comitato. Sono convinto, infatti, e non da oggi, che il
futuro dell’azione culturale in Italia ruota tutto intorno alla crescita
organizzativa, manageriale, finanziaria e operativa delle istituzioni che
fanno cultura. Questo non significa che la creatività artistica e
l’autonomia culturale debbano assoggettarsi tout court alle leggi
del mercato. In tutto il mondo, le istituzioni culturali si muovono
cercando un quadro di costante equilibrio fra componente culturale e
componente manageriale. Il "prodotto" di un’istituzione culturale è,
appunto, un programma culturale, ed è quindi evidente che il successo
dell’istituzione dipende sempre in primo luogo dalla qualità della sua
programmazione culturale e dalle scelte — tattiche e strategiche — che
rischia sul piano strettamente culturale. E tuttavia, la gracilità
organizzativa, la fragilità finanziaria, la scarsità di specifiche
professionalità manageriali specializzate nel settore sono uno dei fattori
frenanti la crescita delle attività e delle istituzioni culturali nel
nostro paese. Una crescita che si deve basare su un supporto da parte
dello Stato che non deve diminuire, ma semmai aumentare, ma al tempo
stesso sulla responsabilizzazione delle istituzioni culturali in ordine
all’efficacia e all’efficienza con cui perseguono le proprie missioni. E,
soprattutto in alcuni campi, sul rafforzamento di una vera e propria
visione industriale della produzione culturale. Perché intorno alla
cultura italiana è possibile — con assetti organizzativi adeguati, con il
rafforzamento del sostegno pubblico e con un nuovo impegno del settore
privato — creare occupazione e imprese. È possibile soddisfare domande
crescenti da parte dei cittadini, e non solo di quelli italiani. È
possibile rilanciare una lunga serie di capacità e di specializzazioni in
cui l’Italia ha grandi tradizioni e grandi opportunità. È possibile
valorizzare una ricchezza che fa dell’Italia un paese unico al
mondo. |