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Gli Atti del Convegno I musei d’impresa tra comunicazione e politica culturale. La memoria nel futuro,
3° Quaderno della Cultura di Assolombarda, a cura di Linda Kaiser, Milano, Edizioni Assoservizi, dicembre 1998

 

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Vice Presidente del Consiglio dei Ministri e Ministro per i Beni Culturali e Ambientali

Conclusioni

Per un osservatore frettoloso e superficiale, quello dei musei d’impresa può sembrare un tema secondario. E invece noi tutti dobbiamo ringraziare Assolombarda e gli organizzatori del convegno che si è svolto oggi a Milano per avere concentrato l’attenzione su questo particolare e importante segmento di azione culturale e di offerta museale.
Un segmento che non racchiude interesse soltanto per il mondo dell’industria, ma per l’intera collettività. La storia delle imprese, infatti, mette insieme storia della scienza, della tecnologia, del lavoro, del territorio, dei gusti, dei beni materiali. Non penso solo ai prodotti industriali — anche se è intorno a essi che è più facile immaginare operazioni che coinvolgano il grande pubblico, com’è avvenuto ad esempio al Museo Guggenheim di New York, che ha registrato più di un milione di visitatori nella recente mostra dedicata alle motociclette. Penso a tutto ciò che sta a monte e a valle dell’"oggetto" materiale che acquista il rango di "oggetto di collezione": i metodi produttivi, il sapere artigiano, l’organizzazione del lavoro, le storie personali e familiari, le invenzioni, i luoghi della scienza e quelli della produzione materiale, come le fabbriche e le botteghe artigiane, le modalità dell’uso e i costumi sociali.
Un museo d’impresa, insomma, non è solo una collezione di "oggetti": è un modo di conservare pezzi importanti della memoria storica delle nostre società. E non a caso, i veri grandi giacimenti di conoscenza, da cui hanno origine anche i progetti di musealizzazione, sono gli archivi storici delle imprese. E fra musei e archivi d’impresa esistono connessioni e interdipendenze che vanno sempre più riconosciute e analizzate.
Quando guardiamo alla situazione esistente in Italia in questo particolare e importante comparto della conservazione dei segni del passato, ci troviamo di fronte, come spesso accade nel nostro paese, un panorama contraddittorio.
Da un lato, come ricorda uno dei nostri più illustri storici dell’arte, Andrea Emiliani, la cultura istituzionale della tutela (e la stessa cultura della storia dell’arte) si è evoluta in Italia in modo esclusivo ed ossessivo sull’"oggetto" artistico. Il primato assegnato alla pittura, la preferenza per una metodologia critica di tipo estetico, non hanno permesso in Italia alla cultura dell’"oggetto" di poter compiere un percorso sistematico di storicizzazione.
Rileviamo segnali di questa situazione sia nelle nostre strutture giuridiche — incentrate sulle "cose" di interesse artistico più che sulla storia, sui "beni" più che sul "patrimonio" — sia nell’evoluzione e nell’operare concreto delle istituzioni statali preposte alla tutela e alla conservazione. Certo, non dobbiamo essere impietosi e superficiali nel giudicare questa situazione. L’Italia è un paese talmente ricco di beni artistici, monumentali e archeologici, che il compito della conservazione di questo patrimonio è un compito immane — e l’obiettivo della conservazione nella sua accezione "tradizionale" ha naturalmente assorbito tutte le energie e le risorse disponibili, sempre in difetto — anzi — sulle effettive necessità.
Tuttavia, è chiaro ormai che le politiche pubbliche a supporto dei beni culturali hanno sottovalutato nel nostro paese quelli che potremmo generalmente chiamare gli aspetti di "cultura materiale", così come l’importante settore della creazione artistica contemporanea. E non a caso, è proprio in questi settori che, negli ultimi due anni, sono stati varati importanti progetti innovativi. Penso, soprattutto, ai nuovi musei nazionali che il Ministero per i beni culturali ha intenzione di realizzare, e per i quali è stato appositamente predisposto un disegno di legge all’esame del Parlamento: il centro per le arti contemporanee, il museo dell’architettura, il museo dell’audiovisivo, il museo della fotografia. E penso ai numerosi altri progetti che, in partenariato con i soggetti locali e regionali, sono oggi in fase di realizzazione per rinnovare l’offerta museale in Italia non solo nei settori tradizionali dell’archeologia e della storia dell’arte, ma anche in nuovi settori. Ricordo soltanto il progetto di Venaria Reale, che prevede un allestimento permanente di grande pregio per le arti decorative e applicate e l’istituzione di un Museo della civiltà europea; e ricordo il restauro di Palazzo Guinigi a Lucca, dove verrà ospitato, per iniziativa degli enti locali e delle associazioni di settore, un Museo del fumetto.
Allo stesso tempo, però, possiamo cogliere nel settore dei musei d’impresa più di un segnale di notevole dinamismo da parte del settore privato, e nuovi esempi di collaborazione e partnership fra privato e pubblico. E di questo panorama positivo, di questa evidente crescita, è testimonianza il ricco dibattito che si è svolto oggi a Milano, in continuazione non soltanto ideale della giornata del 2 marzo scorso dedicata al Premio Guggenheim per "Impresa & Cultura".
Innanzitutto, dobbiamo registrare un dato. È vero che in Italia non esiste ancora un Museo nazionale del design, oppure della moda, oppure delle arti decorative. Esistono però una miriade di collezioni e di esperienze espositive disseminate sul territorio, la cui ricchezza e la cui multiformità ben difficilmente potrebbero essere racchiuse e ricondotte all’interno della "gabbia" centrale di un "Museo nazionale". Una recente indagine, condotta da Monica Amari, censisce ben 128 fra collezioni e musei che espongono oggetti di produzione delle aziende da cui traggono origine.
Esaminando questi dati, ci sono due caratteristiche che mi hanno colpito. La prima è l’estrema differenziazione settoriale dei musei d’impresa, che racconta di per sé le robuste radici della tradizione industriale in Italia: si va dalle automobili agli aerei, dalle armi alle calzature, dalla ceramica all’energia elettrica, dalla moda agli occhiali, dai tessuti al vetro, dai profumi al marmo, dagli ombrelli ai pneumatici, dalla pasta all’oreficeria, dalle figurine agli strumenti musicali, dai motocicli alle macchine da scrivere.
Di fronte a questa ricchezza, mi sembra più che opportuna l’iniziativa lanciata da Carlo Camerana, di costruire più forti elementi di sinergia e di informazione/documentazione fra i musei d’impresa, di valorizzare e promuovere queste istituzioni, di dare vita a un centro di orientamento per il pubblico. I musei, infatti, vivono di rapporto con il pubblico. E questo vale soprattutto per i musei d’impresa — certamente, per considerazioni di bilancio e di copertura dei costi — ma anche perché è attraverso la massimizzazione del pubblico che il museo d’impresa raggiunge il suo più importante obiettivo: che non è solo di conservare, ma anche di trasmettere. Di trasmettere, in particolare, la cultura del "saper fare", il valore del lavoro e della creatività, il rigore dell’organizzazione e la conoscenza critica del passato. Un paese industriale avanzato — e l’Italia lo è e lo resterà — deve sempre più basarsi sulla cultura e sulla formazione. E i musei d’impresa sono luoghi in cui tutti i ragazzi italiani, in ogni parte d’Italia, possono avere un’importante occasione di incontro e di conoscenza con il mondo del lavoro — il mondo del passato, certo, ma anche quello di oggi.
La seconda caratteristica dei musei d’impresa è la loro diffusione territoriale. Mentre i tradizionali musei d’arte si concentrano nelle aree urbane, i luoghi dei musei d’impresa raccontano da soli quel tipico carattere, tutto italiano, di compenetrazione fra campagna e industrializzazione, di diffusione territoriale delle attività produttive, di storie aziendali ricchissime nate e vissute lontano dalle grandi città e dai centri di potere amministrativo e finanziario, di radicamento locale dell’industria. Un carattere, come sappiamo bene, che ci è invidiato da tutto il mondo e che è riconosciuto universalmente come uno degli ingredienti del "successo" industriale italiano.
Ecco quindi la grande opportunità dei musei d’impresa, il motivo per cui non vanno ingabbiati in istituzioni nazionali: essi rappresentano pezzi importanti delle centinaia di storie locali di cui l’Italia è ricca, essi possono diventare — e in qualche caso già lo sono — motori di un’offerta culturale più generale fortemente ancorata e diffusa sul territorio. Come succede in questi giorni a Pontedera: i ragazzi vanno a visitare la Piaggio, attratti dalla storia di questa grande industria di motociclette, e hanno l’opportunità di vedere — magari di sfuggita — anche opere di arte contemporanea. Così, alcuni semi sono stati gettati. Verso pubblici e strati di popolazione che difficilmente andrebbero a vedere, a priori, un’esposizione d’arte.
L’ancoraggio al territorio implica anche, per i musei d’impresa, un’importante valenza urbanistica e architettonica: quella legata al riuso degli edifici di archeologia industriale. Qui vedo numerose strade di incontro fra privato e pubblico, a livello sia locale che nazionale. Perché la conservazione degli edifici di pregio dell’archeologia industriale è un obiettivo non soltanto in sé, ma anche in relazione alle politiche di sviluppo urbano e di rivitalizzazione delle aree industriali in declino. E qui vedo, anche, nuove strade di sperimentazione per operazioni culturali ed espositive innovative. Un solo esempio: lo splendido effetto e i buoni risultati anche in termini di pubblico dell’esposizione delle statue romane dei Musei Capitolini nei locali dell’antica Centrale elettrica di Roma, la Montemartini.
Il segnale più importante che colgo nella giornata odierna, e che faccio mio, è quello della necessità di ridefinire continuamente il concetto di "bene culturale", e della connessa necessità di una strumentazione di intervento pubblico che sia allo stesso tempo più forte e più flessibile. In questa direzione — rendere più forti le politiche per i beni culturali in Italia, ma renderle anche più agili, più flessibili, più innovative negli obiettivi e negli strumenti — abbiamo lavorato per più di due anni. E credo che possiamo onestamente dire che il settore pubblico stia facendo la sua parte.
I fondi destinati alle spese d’investimento per i beni culturali sono quasi triplicati nel bilancio dello Stato e stanno assumendo dimensioni sempre più significative in tutti i bilanci locali e regionali. L’accessibilità del pubblico ai beni culturali è stata messa al centro delle politiche governative. L’esperimento degli orari prolungati nei musei ha contribuito all’aumento delle visite (+14% nei primi sette mesi del ‘98 rispetto ai corrispondenti mesi del ‘97) e ha favorito il vero e proprio boom del turismo nelle città d’arte italiane, anche — e questa è una novità davvero positiva — in quelle del Mezzogiorno. Ed è stata — particolare di non poco conto — un’operazione finanziariamente conveniente per lo stesso Stato, nel senso che i costi aggiuntivi del prolungamento degli orari sono risultati inferiori ai rientri tariffari addizionali. È su questa base, tra l’altro, che credo si possa proporre di rendere permanente l’apertura prolungata, almeno durante i mesi di maggiore domanda turistica.
Abbiamo, poi, varato una riforma generale dell’intervento pubblico nel settore, dapprima con le norme di riordino dei poteri statali, regionali e locali, e un mese fa con il varo della proposta di decreto legislativo di istituzione del nuovo Ministero per i beni e le attività culturali. Un Ministero, appunto, più forte nelle missioni di tutela e di promozione della cultura italiana, ma più agile negli strumenti e nelle modalità d’intervento. In particolare, il decreto propone che il nuovo Ministero possa stipulare accordi con amministrazioni pubbliche e con soggetti privati e possa, altresì, costituire o partecipare ad associazioni, fondazioni o società.
Sono già vigenti altre norme innovative su cui abbiamo lavorato in questi due anni, che hanno aperto un nuovo capitolo e una nuova riflessione — non più accademica ormai, ma pienamente operativa — sui rapporti fra pubblico e privato nelle imprese che hanno finalità culturali. Penso alle Onlus. Alle Fondazioni liriche. Alla trasformazione in "S.p.A." di cultura della Biennale di Venezia. In ciascuno di questi casi è stato predisposto uno specifico pacchetto di agevolazioni fiscali del tutto nuove.
Oggi possiamo aprire una nuova fase di riflessione, che si basi innanzitutto su un monitoraggio e su una prima valutazione di queste innovazioni. E che introduca nuovi elementi di prospettiva strategica. Penso al ruolo delle Fondazioni bancarie nel sostegno del settore culturale, non solo sotto il profilo patrimoniale, ma anche per quanto riguarda la gestione delle attività correnti. Penso al regime fiscale delle sponsorizzazioni e delle erogazioni liberali destinate alle istituzioni culturali. Qualcosa è stato fatto in questo campo — ricordo soltanto la riforma dell’imposta sullo spettacolo, le semplificazioni amministrative e finanziarie per l’"adozione dei monumenti" e la sperimentazione di un regime agevolativo "speciale", basato sul credito d’imposta, per le sponsorizzazioni destinate a Pompei.
Qualcosa in più può essere fatto nel futuro, anche immediato, grazie alla nuova situazione di risanamento delle finanze pubbliche. I rapporti fra fisco e cultura sono sempre stati, per motivi oggettivi e strutturali, conflittuali — e questo è vero in tutti i paesi del mondo. Oggi però, grazie al risanamento, in Italia possiamo lavorare in un clima più sereno e valutare sul piano operativo, e non più soltanto astratto, l’esperienza di altri paesi, e in particolare quella del Regno Unito.
Pochi mesi fa, in questo Auditorium dell’Assolombarda, è stato presentato un "Manifesto per l’impresa culturale" promosso dall’Associazione bancaria italiana, dall’Associazione nazionale delle imprese assicurative, dalla Confindustria e dalla stessa Assolombarda. Il Manifesto proponeva l’istituzione di un "Comitato per l’impresa culturale", con il compito di delineare e valutare sul piano concreto la possibilità di sviluppo di nuove forme di imprenditorialità non profit nel settore culturale. Oggi posso annunciare che la proposta è stata accolta dal Governo, che ha nominato all’interno del Comitato autorevoli rappresentanti della Presidenza del Consiglio dei Ministri, del Ministero di Grazia e Giustizia, del Ministero del Tesoro, del Ministero delle Finanze, del Ministero dell’Università e della ricerca scientifica e tecnologica e del Ministero dei beni culturali e ambientali. Si è formato così un gruppo di lavoro in cui il Governo, insieme ai rappresentanti del settore privato, potrà valutare ed elaborare sul piano tecnico nuove proposte per lo sviluppo di forme d’impresa nel settore culturale in Italia.
Io credo molto nei lavori di questo Comitato. Credo che debba essere una sede aperta di discussione e di elaborazione, ancorata a scadenze precise, volta a formulare proposte realistiche, immediatamente traducibili in atti normativi o in sperimentazioni organizzative e amministrative. E per sottolineare la serietà di questo impegno, anche sul piano politico, ho deciso di assumere direttamente e personalmente la presidenza del Comitato.
Sono convinto, infatti, e non da oggi, che il futuro dell’azione culturale in Italia ruota tutto intorno alla crescita organizzativa, manageriale, finanziaria e operativa delle istituzioni che fanno cultura. Questo non significa che la creatività artistica e l’autonomia culturale debbano assoggettarsi tout court alle leggi del mercato. In tutto il mondo, le istituzioni culturali si muovono cercando un quadro di costante equilibrio fra componente culturale e componente manageriale. Il "prodotto" di un’istituzione culturale è, appunto, un programma culturale, ed è quindi evidente che il successo dell’istituzione dipende sempre in primo luogo dalla qualità della sua programmazione culturale e dalle scelte — tattiche e strategiche — che rischia sul piano strettamente culturale.
E tuttavia, la gracilità organizzativa, la fragilità finanziaria, la scarsità di specifiche professionalità manageriali specializzate nel settore sono uno dei fattori frenanti la crescita delle attività e delle istituzioni culturali nel nostro paese. Una crescita che si deve basare su un supporto da parte dello Stato che non deve diminuire, ma semmai aumentare, ma al tempo stesso sulla responsabilizzazione delle istituzioni culturali in ordine all’efficacia e all’efficienza con cui perseguono le proprie missioni. E, soprattutto in alcuni campi, sul rafforzamento di una vera e propria visione industriale della produzione culturale.
Perché intorno alla cultura italiana è possibile — con assetti organizzativi adeguati, con il rafforzamento del sostegno pubblico e con un nuovo impegno del settore privato — creare occupazione e imprese. È possibile soddisfare domande crescenti da parte dei cittadini, e non solo di quelli italiani. È possibile rilanciare una lunga serie di capacità e di specializzazioni in cui l’Italia ha grandi tradizioni e grandi opportunità. È possibile valorizzare una ricchezza che fa dell’Italia un paese unico al mondo.

 

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