FUMETTI A FIRENZE - CRONACHE E MEMORIE - 1

di Leonardo Gori ©

 QUANDO A FIRENZE NACQUE TOPOLINO

 Parlare di Fumetti a Firenze è come portare vasi a Samo: la nostra è la Patria di quella che Hugo Pratt chiamava "narrativa disegnata". Ma ci sono tante storie, piccole o grandi, che non tutti conoscono. E tante novità, tante iniziative stimolanti. Vedremo di alternare le une alle altre, perché occorre vivere, nel fumetto come in tutti gli altri campi, di vecchio e di nuovo: la memoria nutre il presente.

Nell’ambiente dei collezionisti di fumetti e degli studiosi della "nona arte", la storia di come Topolino approdò a Firenze, ormeggiando sulle rive dell’Arno, è ben conosciuta. Ma nel campo dei fumetti, gli "addetti ai lavori" hanno l’antipatica abitudine a tenere un po’ per sé le notizie gustose, i miti, le leggende, gli aneddoti di questa ormai storica forma d’espressione. Ben pochi, a Firenze, fra le persone di cultura o in generale fra chi ha sensibilità storica, sanno come andò la cosa: ed è un peccato, perché anche questa è Storia locale, e della più importante, che sfuma e si confonde con quella nazionale.

Fino a un paio di decenni fa, c’erano ancora tanti testimoni diretti e indiretti di quell’avvenimento, così decisivo, visto col senno di poi, che oggi un Assessore alla Cultura che si rispetti dovrebbe ricamarci sopra una rievocazione coi fiocchi. Alcuni di questi testimoni li abbiamo conosciuti anche noi: erano tipografi della gloriosa tipografia Vallecchi, quella che aveva sede nel Viale dei Mille, più o meno a metà del tratto fra Via Pacinotti e Via Marconi. I tipografi erano testimoni eccezionali, molto credibili: non avevano giustificazioni da avanzare per scelte sbagliate, piccoli e grandi segreti da tenere nascosti, viltà o altre umane miserie di cui vergognarsi. Artigiani straordinari, nel loro lavoro portavano ancora qualche scintilla delle botteghe del Rinascimento, curavano i primi giornalini a fumetti (disprezzati un po’ da tutti, a quei tempi, fuorché dagli appassionati lettori) come se fossero edizioni d’arte dei Fratelli Alinari. E i risultati si vedono, visto che ancor oggi i collezionisti si disputano accanitamente i prodotti della loro sfavillante tricromìa.

Come andò, allora, che Topolino arrivò in Italia e fu allevato e svezzato da un editore fiorentino? In Via Faenza, nel 1932, c’era un glorioso editore che aveva costruito, fin dall’ultimo scorcio dell’ Ottocento, le sue fortune sulla stampa popolare. Prima libri socialisti o di battaglie sociali in genere, poi - quando il vento mutò direzione - riviste, giornali umoristici o "scollacciati", libri a metà fra il morboso e il culturale come "Piaceri e crudeltà storiche", centinaia di "dispense", da Nick Carter a Buffalo Bill e a Petrosino. Fino all’alba degli anni Trenta, non c’erano fumetti: esisteva solo il vecchio "Corriere dei Piccoli", con già oltre vent’anni sulle spalle e rimasto ancorato a una visione parapedagogica dell’intrattenimento per fanciulli. Nel dicembre del 1932, a Milano, un intelligente e aggressivo editore, Lotario Vecchi, aveva però fatto uscire un giornalino settimanale, "Jumbo", che presentava dei fumetti inglesi, riscuotendo un successo straordinario.

Giuseppe e Mario Nerbini, padre e figlio, avevano uno straordinario fiuto: si resero conto che dovevano occupare un posto - e un posto di primo piano - in quel nuovo genere editoriale. Girando per le strade di Firenze, i due rimuginavano su una "formula" che fosse davvero nuova, che potesse catturare l’attenzione dei piccoli lettori. Qualche anno prima avevano provato a "rubare" il personaggio di Fortunello (un antieroe americano che si chiamava Happy Hooligan) al "corrierino", cucendogli addosso un periodico che aveva conosciuto scarse fortune. La modernità batteva alle porte, all’inizio degli annio Trenta: la si vedeva dappertutto, nelle copertine dei libri, nei giornali, perfino nelle architetture dei palazzi: lo Stadio di Firenze, capolavoro razionalista, era in costruzione proprio in quel periodo. E poi canzoni "sincopate", "americanate" in grande quantità. Proprio fra queste "americanate", una spopolava letteralmente al Cinema: era Topolino, con i suoi irresistibili cartoni animati in bianco e nero che seguivano i film di successo. I Nerbini si resero conto di un curioso fenomeno: la gente - e non solo i bambini! - sceglievano il film da vedere se c’erano i cartelli "Oggi lavoro io!" o "Oggi Topolino", che annunciavano l’ambìto dopo-spettacolo. Topolino aveva solo quattro anni ed era già una "maschera" popolarissima in tutto il mondo. Si avviava a diventare un’icona del Ventesimo Secolo.

Che fecero, Giuseppe e Mario Nerbini? Tornati in Via Faenza, decisero che il nuovo giornalino che avevano in mente dovesse chiamarsi proprio "Topolino". E i fumetti da pubblicare? I due non sapevano (o facevano finta di non sapere...) che quelli originali, di Ub Iwerks e Walt Disney , erano già stati pubblicati episodicamente, nel 1930, sulla "Gazzetta del Popolo" di Torino. Così, decisero di incaricare due loro bravissimi artigiani dell’Illustrazione, Gaetano Vitelli e Giove Toppi, di disegnare brevi avventure di Topolino ...fatte in casa. Il 31 dicembre del 1932 uscì il primo numero di "Topolino": otto pagine di grande formato, parte in blu e parte in tricromia, con un Topo alquanto fiorentinizzato che si prendeva beffe di un elefante. Era l’inizio di una saga editoriale che ci avrebbe accompagnati, quasi senza interruzioni, fino ad oggi.

Non andò tutto liscio: il rappresentante di Disney in Italia ebbe subito da ridire, e mise gli editori fiorentini davanti a un aut-aut: chiudere subito il settimanale o pubblicare le storie originali che venivano dall’America (e che costavano salate!). I Nerbini erano scaltri, e colsero al volo l’occasione: accettarono. Fu l’inizio delle loro fortune, che magari racconteremo una delle prossime volte.